domenica 30 ottobre 2016

Tutti contro il libero scambio



Le cose stanno andando avanti più per inerzia che per strategia, con tutta evidenza in campo economico e la politica non può essere da meno. Questo articolo edito su Aspenia ci spiega meglio le contraddittorie e obbligate linee di tendenza -colte nel vertice politico mondiale- imposte dalla stagnazione economica, il punto morto in cui il mondo borghese si sta impaludando.---
 
Le resistenze che il TTIP ha incontrato negli ultimi mesi in Unione Europea manifestano un nuovo malessere nei confronti del libero scambio, assurto a principale argomento controverso nei dibattiti politici. Un sentimento che non appare limitato al vecchio continente, ma che si ripete in forme più o meno uguali anche negli Stati Uniti. Testimoniando una lotta trasversale tra i vincitori e i perdenti della globalizzazione.

Se in Europa l’oggetto del contendere è il TTIP (il progetto di Transatlantic Trade and Investment Partnership, ancora in fase di negoziato), negli USA questo ruolo è assegnato al suo ‘fratello maggiore’, il TPP (Trans-Pacific Partnership), siglato dagli Stati Uniti lo scorso febbraio (dopo sette anni di negoziati) con altri 12 paesi dell’area del Pacifico, compresi Canada e Giappone. Il trattato, che una volta entrato in vigore avvicinerebbe paesi che compongono il 40% del pil mondiale in una macro-regione fondamentale per il futuro del pianeta, è visto dall’amministrazione Obama con particolare favore: agli occhi della Casa Bianca, il TPP doveva essere uno dei principali lasciti dei due mandati presidenziali, in quanto strumento principe per portare a termine il tanto decantato pivot to Asia – una versione meno muscolosa del contenimento della Cina. Si tratta di affidare un ruolo strategico di primo piano al libero scambio, visto come strumento alternativo alla forza militare per puntellare l’ordine mondiale a guida statunitense anche nel nuovo secolo. 


sabato 1 ottobre 2016

Le origini agrarie del capitalismo



 A proposito dell' affinamento della forma valore operato nella produzione agricola e poi consegnato all' industria. Il lungo abbrivio della lenta ma inesorabile crescita della produttività accumulata nei secoli del basso medioevo doveva strutturarsi in un nuovo corpo con abito altrettanto nuovo, senza potersi mai più riconoscere. L' articolo sembra sintetizzare negli "imperativi del mercato" ciò che io, appoggiandomi indegnamente su altri, chiamo rapporto sociale capitalistico. ---

Update: questo innocuo post ha sortito una polemica con un certo Plinio che ha pensato di cogliermi in fallo poichè qui propongo questa breve indagine sul primo esempio di centralizzazione dei mezzi di produzione avvenuto nell'Inghilterra del XVII sec in campo agricolo. Al contrario spesso mi esprimo in favore di uno slancio e di una attenzione particolari verso ciò che già oggi tratteggia la necessità di una nuovissima combinazione storico-sociale. C'è contraddizione logica? In realtà per me, nella mia testa, -luogo esclusivo, mi rendo conto- questo post continuava un commento lasciato pochi giorni prima nel blog Diciottobrumaio in cui accennavo ad alcune questioni inerenti a questo tema. Ora che la gratuita polemica del mio interlocutore si dovrebbe essere quietata ne posso dare spiegazione.

Una delle più consolidate convenzioni della cultura occidentale è l’associazione del capitalismo con la città. É invalsa la supposizione che esso sia nato e cresciuto nelle città. Non solo, tutto ciò implica che qualsiasi città – con le sue caratteristiche attività di traffico e commercio – sia per natura, e sin dagli inizi, potenzialmente capitalista, e come solo ostacoli esterni abbiano impedito a ogni civiltà urbana di dare i natali al capitalismo. Solo la religione sbagliata, la forma di stato sbagliata, o ogni altro genere di catene ideologiche, politiche e culturali che abbiano frenato le classi urbane, hanno impedito al capitalismo di sorgere ovunque e comunque, sin da tempi immemorabili – o perlomeno da quando la tecnologia ha permesso un’adeguata produzione di eccedenze.