martedì 29 novembre 2016

Automazione e servitù #1


 La macchina ha gettato a terra il conducente, 
e corre cieca nello spazio.


Argomento centrale dell' epoca di fronte al quale la critica sociale è rimasta impigliata è quello di cui ci parla il novecentesco Marcuse in queste righe. La servitù volontaria a cui volentieri ogni giorno ci pieghiamo e a cui ci siamo piegati in ogni epoca -ma oggi parrebbe, in momento di attacco diretto alle condizioni di sussistenza, con più zelo- è mimesi delle concrete condizioni di lavoro che inglobano e al contempo producono una reiterazione conforme alle condizioni stesse su ogni scala. La radice, per l' uomo, è l' uomo stesso, ovvero quello che fa nel modo in cui lo fa.  Queste condizioni sono oggi ovunque grandemente, ma forse non abbastanza, informate dall' automazione macchinica. Essa pone e presuppone una sua propria storica razionalità che si installa e si riproduce come struttura logica di tipo unidimensionale -che nel linguaggio dei francofortesi significa in assenza di una propria negazione determinata-, al cui fondo l' autore ci invita ad  immergersi e a fare propria, unico modo per non subirla a priori. Il risultato del  processo è "la società senza opposizione". Vediamo il primo di alcuni passaggi di questo processo.---



L'analisi è centrata sulla società industriale avanzata, in cui l'apparato tecnico di produzione e di distribuzione (con un settore sempre piú ampio in cui predomina l'automazione) funziona non come la somma di semplici strumenti, che possonoessere isolati dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un sistema che determina a priori il prodotto dell'apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. 
                                                    

domenica 20 novembre 2016

L' ineguale sviluppo politico -italiano








 L' ineguaglianza dello sviluppo economico e
politico è una legge assoluta del capitalismo


Pinocchietto Renzi avrebbe dovuto leggere fino in fondo Lenin: avrebbe avuto qualche dubbio in più sul appoggio dei ceti medi italiani alle sue riforme---.

Marx, nel terzo volume del “Capitale”, individua nella forma democratica la "forma specifica" dello Stato capitalista e vede nelle altre forme di Stato capitalistico "variazioni" e "gradazioni" della "forma specifica». La "forma specifica" dello Stato capitalistico é la forma democratica della dittatura borghese alla massima purezza. E' l' involucro "puro", cioé l’involucro di una società composta solo da imprenditori e salariati tendente alla massima concentrazione dei mezzi di produzione. Le "variazioni" e le "gradazioni" della "forma specifica" dello Stato borghese sono l'espressione delle variazioni e delle gradazioni dello sviluppo economico capitalistico "puro". Lo sviluppo economico del capitalismo é variato e graduato, quindi ineguale. Ne deriva che anche lo sviluppo degli Stati, che avvolgono tutte le parti del mercato mondiale, é variato e graduato, cioé ineguale.[...]

venerdì 18 novembre 2016

Il tempo di lavoro che si divora la vita




Non si dà vera vita nella falsa

Lo sviluppo delle forze produttive appare giunto al suo capitalistico capolinea ma l'astuzia del Capitale è tale che il general intellect si spreme le meninigi anche gratis per alzare il saggio di profitto- accelerando peraltro la sua stessa sostituzione con l' intelligenza artificiale. Grande è la paura di essere messi da parte, di andare a implementare la già nutrita e concreta moltitudine dei mendicanti metropolitani.

Il reale potere del Dominio non risiede nel comando ma proprio nella Sua società che ha manipolato fin nelle più recondite pieghe con il bastone della necessità e l' imitazione e con la carota della libertà e la distinzione, eppure è proprio in essa che rintracciamo le faglie più profonde del attrito fra il possibile e l' aporia del presente.


Il titolo dato dal collettivo Clash City Workers all' articolo che riproduco dovrebbe essere ribaltato: il tempo al servizio del Capitale è l' unica vita che c'è. Da quando esiste il lavoro salariato, da non intendersi in senso sindacale, la classe dei padroni si compra e usa come meglio crede la vita del lavoratore, fra cui le ore in cui lo spreme come forza-lavoro immediata -di mano o di concetto non ha alcuna importanza. Con il progressivo venire a galla della sostanza sociale e totalitaria del Capitale la vita, il tempo libero e quello di lavoro di ognuno sono categorie comode per l'analisi (che però ci portano a credere che esista un margine che non c'è) ma con sempre maggiore evidenza formali.


Il 4 agosto scorso compare su Bloomberg Businessweek un’intervista a Marissa Mayer, amministratore delegato di una delle più grandi corporation al mondo: Yahoo. Senza tanti giri di parole, la Mayer, già fra i primi dipendenti di Google, ci svela la chiave del successo del gigante statunitense e più in generale di ogni grande impresa: “Il segreto della fortuna delle aziende è quello di avere dipendenti che si impegnano duramente. Si può arrivare a una media di 130 ore alla settimana”. Per anni abbiamo sentito raccontare la storia per cui, nelle grandi società del web 2.0, il lavoro era molto più rilassato: appositi spazi comuni dove prendere una pausa e fare un pisolino, e in Google addirittura la possibilità per i dipendenti di usare un’ora retribuita al giorno (o perfino il 20% del tempo) per dedicarsi a un libero progetto. Ma poi nel 2015 è stata proprio la Mayer a chiarire meglio la faccenda: “I’ve got to tell you the dirty little secret of Google’s 20% time. It’s really 120% time”. Ovvero, quel 20% di tempo era da considerarsi oltre il normale lavoro: straordinari straordinari, semplicemente, non retribuiti. Progetti che poi Google valutava ed eventualmente includeva tra quelli ufficiali. Sono gli stessi Page e Brin, fondatori di Google, ad affermare nel 2014: “Noi incoraggiamo i nostri dipendenti, in aggiunta ai loro regolari progetti, a utilizzare il 20% del loro tempo per lavorare su quello che loro pensano possa fare più bene a Google”, tanto che “molti dei nostri avanzamenti sono avvenuti in questa maniera”, da Google News a Gmail e addirittura il sistema che genera la fetta più grande di profitti per il colosso statunitense: AdSense.  Solo nel 2013 Google ha escluso del tutto la politica del 20%, probabilmente per porre un limite all’eccessivo ritmo di innovazioni che rendeva difficile lo sviluppo organico dei progetti. 



giovedì 17 novembre 2016

Il ritardo -italiano


Sembra che non sia cambiato molto in questo misero paese che si accapiglia sul niente e si pregia di lasciare insolute le questioni cruciali Mi riferisco al pluridecennale gap tra lo sviluppo socio economico e la infrastruttura politica, l' eterno ineguale sviluppo. E, allargando lo sguardo, il tutto  in un fortissimo ritardo rispetto ai più diretti, vecchi e nuovi concorrenti nella competizione imperialistica globale. La riforma costituzionale e la legge elettorale sembrano essere  pensati più per mimetizzare, agli occhi degli osservatori internazionali, la strutturale incapacità del personale politico a riformare. Neppure il bipartitismo - nel testo emerge bene la sua necessaria funzione, peraltro oggi parecchio in crisi- qui ha attecchito e i due italici poli -anzichè riformare velocemente per adattare il corpo sociale alle accelerazioni economiche- hanno prodotto inciuci di tutti i generi e quindi immobilismo.   La stessa nozione di capitalismo di stato come qui declinata, dopo che siamo passati attraverso la privatizzazione del IRI e dei principali gruppi industriali e finanziari a capitale "pubblico", in Italia non è mai del tutto tramontata. E che dire poi del parassitismo sociale ?---


La crisi politica esasperata è la più clamorosa manifestazione delle contraddizioni in cui si dibatte la società borghese in Italia. La crisi politica accelera la tendenza al bipartitismo, tendenza che é funzionale al sistema, ma aggrava tutti i problemi economici del capitalismo e le condizioni di vita del proletariato, dalla perdita del potere di acquisto alla disoccupazione. L’ indebolimento dell’ imperialismo italiano in rapporto alle potenze che stanno crescendo rafforzate dalla crisi mondiale di ristrutturazione si accentua sempre più ed ha come effetto,  rapido e precipitato, un ulteriore condizionamento internazionale ed un ulteriore processo di imputridimento sociale e politico.

La crisi politica raggiunge ormai toni parossistici che non fanno altro che aggravare l' indebolimento della metropoli italiana. Il capitalismo italiano ha dimostrato negli ultimi due anni l' incapacità a portare avanti una vera ristrutturazione e questa incapacità, questo ritardo nei confronti dei suoi concorrenti, questo problema rimandato di mese in mese si e accumulato e addensato proprio quando il sistema mondiale esprime confronti e conflitti interimperialistici al piu alto livello.


domenica 13 novembre 2016

Conciliare l’impero e la retorica antiliberista



Articolo di Dario Fabbri da Limes, il commento che ho trovato più azzeccato sulle modifiche che la recente elezione di Trump potrebbe portare al quadro statunitense e mondiale. Quello che ovviamente è certo è che nulla cambierà per quanto riguarda il drenaggio di plusvalore che gli Stati Uniti operano ai danni dei paesi emergenti, e non solo, tramite il signoraggio valutario e i rami d' industria ad altissima composizione organica di capitale. In questo consiste oggi l' Impero Americano, fondato sulla esigenza e capacità di quei capitali di stare a galla in tutti i chiari di luna dei vari cicli economici più che sulla opzione militare, la quale spesso ha smaccatamente spianato la strada alla penetrazione commerciale ma che non ne è la ragion d' essere. In generale mi pare di capire, ora che le carte iniziano a vedersi, che la maggior parte degli ambienti politici e finanziari internazionali preferissero la Clinton semplicemente perchè sapevano già cosa aspettarsi in politica estera e  la sua elezione non avrebbe interferito con le mosse di politica monetaria già annunciate della Federal Reserve. Ora non è più questo il caso: Trump pare mettere l'accento sugli "stimoli fiscali" per grandi aziende -e grandi azionisti- combinati con un certo uso del dumping doganale a protezione delle merci US -da giocarsi anche in chiave geopolitica. Il tutto probabilmente producendo debito federale e inflazione, la quale può essere anche un modo di attaccare il monte salari e il welfare. Un analista finanziario così descrive la situazione: " Ironicamente, la reazione del mercato sembra anche sottolineare come difficilmente le cause che lo hanno portato al potere, la disegualglianza, la crisi della middle class, la rabbia contro l’establishment, vedranno i benefici sperati da un presidente che vuole aumentare la spesa fiscale e tagliare la corporate tax."


Le elezioni che hanno sospinto Donald Trump alla Casa Bianca hanno dimostrato la preminenza negli Stati Uniti della questione di classe. Tema che si reputava sommerso, tant’è vero che i sondaggisti si sono fatti depistare dall’applicazione delle griglie demografiche (sesso, età, etnia, religione e via dicendo) alle rilevazioni delle preferenze dell’elettorato.

Così le donne, nonostante il plateale sessismo del candidato repubblicano, si sono schierate in suo favore molto più di quanto ci si potesse aspettare. A dimostrazione di quanto questa tornata sia stata decisa da questioni economiche.

Persino più d’un ispanico ha votato per Trump. Non solo gli anticastristi cubani, contrari come il magnate newyorkese al disgelo con il regime dell’Avana, ma pure gli immigrati che, ormai ottenuta la cittadinanza statunitense, non volevano la naturalizzazione dei clandestini promessa da Hillary Clinton e la loro conseguente regolarizzazione nel mercato del lavoro.


domenica 6 novembre 2016

Ballad of a thin man (la fantomatica coscienza di classe #9)

Because something is happening here
But you don’t know what it is
Do you, Mister Jones?
 
Dagli epistolari di Engels il ritratto delle maschere di carattere che presidiano la politica e la cultura: sembrano impersonare se stessi invece non sanno neanche chi li manda. Faranno il loro mestiere comunque, a causa o malgrado le loro idee e proposte, non dubitatene. Il mondo borghese, dopo la conquista del pianeta, sembra si stia secolarizzando: ciò non vuol dire che sia nella sua natura farlo. E' una rivoluzione esigente e continua, portata a tutti i livelli sociali, il suo modo d'essere.---

Aggiornamento: Trump ha vinto la contesa, in questa mostruosa fase storica di transizione le tensioni manifeste e latenti che attraversano i vari corpi sociali  prendono la faccia degli outsider e della rottura almeno apparente della continuità politica. E' stato così per Obama (che fu a sua volta un outsider 8 anni fa), la cui politica è stata bocciata, così pochi mesi fa per la "impossibile" brexit. Trump non ce lo vedo ad uscire troppo fuori dai binari (apparati permettendo) ma di fatto la voglia di protezione statale contro gli enormi pericoli che i popoli dell'ex parte avanzata del capitalismo mondiale stanno correndo è tanta.  

A me pare che avremmo tanto da imparare dagli USA, sia per la genuinità che per gli infingimenti con cui lo spirito capitalista lì si mostra. Nego qualsiasi superiorità di qualsiasi tipo tra un europeo e un americano, ovvero tra i due modelli. Il fatto che quando pensiamo all' America ci troviamo di fronte alla potenza imperialista più forte del mondo da un secolo -e oggi non proprio più all' avanguardia  e senza l' abbrivio al profitto che hanno altri- a me semmai fornisce motivo di interesse e una certa ammirazione.  Forse sono succube del mito americano.


Gli uomini fanno essi stessi la loro storia, ma finora neppure in una determinata società ben delimitata, non con una volontà collettiva, secondo un piano d’assieme. I loro sforzi si intersecano contrastandosi e, proprio per questo, in ogni società di questo genere regna la necessità, il cui complemento e la cui forma di manifestazione è l’accidentalità. La necessità che si impone attraverso ogni accidentalità è di nuovo, in fin dei conti, quella economica. Qui è il momento di trattare dei cosiddetti grandi uomini. Il fatto che il tale uomo, quello e non altri, sia comparso in quel momento determinato, in quel determinato paese, è naturalmente un puro caso. Ma sopprimiamolo, e c’è subito l’esigenza di un sostituto, e questo sostituto lo si trova, bene o male, ma a lungo andare lo si trova. Che proprio Napoleone, questo còrso, fosse il dittatore militare reso necessario dal fatto che la repubblica francese fosse stremata dalle proprie guerre, fu un caso; ma che, in assenza di Napoleone, un altro ne avrebbe preso il posto, è provato dal fatto che ogni qualvolta era necessario si è sempre trovato l’uomo adatto: Cesare, Augusto, Cromwell ecc. Se Marx ha scoperto la concezione materialistica della storia, Thierry, Mignet, Guizot e tutti gli storici inglesi fino 1850 dimostrano che vi era una tendenza in questo senso, e la scoperta della stessa concezione da parte di Morgan prova che i tempi erano maturi per essa e che la si doveva necessariamente scoprire.

Lo stesso vale per tutti gli altri fatti casuali o apparentemente casuali nella storia. Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica.

martedì 1 novembre 2016

La scienza può dire la verità ?


Senza totalità, allo scienziato rimane da indagare fatti slegati, ossia accettare lo status quo. 


Un importante articolo sul tema più sostanziale di ogni epoca: quello della verità e del suo albergare o meno, e in che misura, nella realtà sociale come nella vita soggettiva, sempre che di quest' ultima ne esista una.---

Introduzione

La filosofia della scienza si è a lungo interrogata sulla diversa natura delle singole discipline e sull’unicità o meno dei metodi della scienza che ne poteva derivare. Fino al XIX secolo, la specializzazione scientifica non era tale da originare controversie. Gli scienziati erano anche filosofi e spesso studiosi della società e storici[1] . Gli intellettuali avevano una conoscenza almeno basilare di tutte le scienze principali e della filosofia e nessuna scienza godeva di uno status superiore poiché ancora nessuna scienza aveva contribuito a un incremento sensibile delle forze produttive.
Il fenomenale sviluppo della scienza degli ultimi secoli ha elevato lo status delle scienze naturali, relegando le discipline sociali a chiacchiericcio. Il sentire comune è che la fisica sia “la” scienza assieme a ciò che le si avvicina per rigore nella sperimentazione e nella teorizzazione. Il contributo della fisica allo sviluppo umano appare ovvio e incontrovertibile, quello delle scienze sociali quanto meno dubbio. Le riflessioni epistemologiche moderne sono tentativi di generalizzare i metodi della fisica per consentire a tutte le branche del sapere di arrivare allo stesso livello di sviluppo: “le scienze dell’uomo e della società si sforzano di emulare il modello delle scienze naturali che hanno tanto successo”[2], così che tra le influenze dominanti per le scienze sociali vi è quella dei “modelli forniti dalle scienze della natura” (Piaget, cit., p. 29). Al massimo, allora, alla filosofia non rimane che il ruolo di commentatrice e generalizzatrice, poiché “resta la tendenza fondamentale dello sviluppo filosofico: riconoscere come necessari e come dati i risultati ed i metodi delle scienze particolari, attribuendo alla filosofia il compito di portare alla luce e di giustificare il fondamento di validità di queste costruzioni concettuali”[3] .
L’epistemologia moderna, in quasi tutte le sue componenti, riflette il trionfo delle scienze naturali. Nell’ottocento, molti scienziati guardavano ottimisticamente alle scienze nel loro complesso, evidenziando una loro natura unitaria in quanto parti del progresso dell’industria e della società (Helmholtz per tutti). Nel ventesimo secolo, la scuola epistemologica più di successo e duratura, il neopositivismo, considera una parte fondamentale del suo programma la battaglia per l’unificazione delle scienze, ovviamente sotto le bandiere della fisica. Pur da prospettive diverse, gli epistemologi successivi hanno sostanzialmente accettato questa posizione monista. Ciò vale anche per diversi pensatori marxisti, che hanno subordinato le scienze sociali a quelle naturali[4].
D’altro canto, le correnti che hanno proposto interazioni tra scienza e società (in particolare la sociologia della conoscenza), hanno rilevato il carattere sociale di tutte le scienze, in un quadro metodologico, di nuovo, sostanzialmente monista.
In queste concezioni ha poco senso distinguere tra scienze sociali e naturali. Esse avranno gli stessi obiettivi, gli stessi metodi, spesso gli stessi strumenti analitici e si distingueranno, al massimo, per un diverso grado di sviluppo e formalizzazione. Le scienze più sviluppate forniranno il modello per tutte le altre, che non dovranno far altro che seguirne le orme.
In questo scritto cercheremo di dimostrare che esiste invece una differenza strutturale, ontologica, tra le scienze che non coincide strettamente con la distinzione tra scienze naturali e sociali e che tale distinzione deriva dalla loro funzione sociale, da cui anche deriva il rapporto con i criteri di verità della scienza. Ciò che distingue le scienze, proveremo a spiegare, non è il metodo o l’oggetto di studio, ma il rapporto con le forze produttive e i rapporti di produzione.