domenica 26 luglio 2015

Lo stato islamico è uno stato...

Nell articolo la chiamano modernità, chiamiamola prassi sociale capitalista che trova mediazione e sintesi nello Stato capitalistico. Apparirà allora che non c'è nessun scontro di civiltà o religione, si tratta di sano imperialismo intercapitalista con modalità magari un pò plateali -ma lo show-businnes non è anche questo?- ma  per nulla arcaiche.
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da Limesonline.com
 
di Anna Maria Cossiga e Federico Bonarota, originariamente intitolato "Se lo Stato Islamico diventa uno stato"


Forse ci eravamo cullati nell’idea che il cosiddetto Stato Islamico (Is) avrebbe visto presto la fine. Nell’immaginario collettivo e nelle favole i “buoni” hanno sempre la meglio sui “cattivi”, e più “cattivo” dello Stato Islamico chi c’è?  Le cose, tuttavia, sembrano andare diversamente.

I jihadisti di al-Baghdadi controllano già un territorio grande quanto la Gran Bretagna, hanno di recente occupato Palmira, certamente mirano a prendere Damasco. Quanto a Baghdad, secondo John McLaughlin, vice-direttore della Cia dal 2000 al 2004, è difficile che riescano a conquistarla. Ma per demoralizzare gli oppositori del “califfato” non è necessario farlo: sarebbe sufficiente “infiltrare combattenti e armi, creando il caos”. Questa prospettiva appare del tutto realistica, anche perché quella che dovrebbe essere la coalizione anti-Is non sembra concludere molto.

I   bombardamenti evidentemente non bastano e addestrare quel che resta dell’esercito iracheno   nemmeno. Come sottolinea McLaughlin, “la gente non combatte perché viene addestrata; combatte   perché crede in qualcosa. Al momento, i più convinti credenti della regione appoggiano lo Stato   Islamico”. Per non parlare del fatto che l’Is può contare su paesi pronti a voltare lo sguardo dall’altra parte. Insomma, non è del tutto improbabile che il “califfato” possa diventare uno Stato vero e proprio, un’entità politica con cui la comunità internazionale dovrà, prima o poi, avere rapporti.

Nonostante la marcata antipatia dell’Is per lo Stato-nazione occidentale, esso ha interiorizzato alcune delle caratteristiche di quello che definiamo “Stato moderno”: fare la guerra, reclutare uomini, imporre tasse, creare istituzioni, rivendicare la sovranità e la legittimazione della propria autorità sono le azioni attraverso cui gli Stati si sono formati e oggi controllano un determinato territorio.

venerdì 24 luglio 2015

Il cuore tedesco del problema

Il solito coacervo di convergenti e antagonistici interessi si rappresenta oggi nella più o meno arbitraria contrapposizione tra la politica Merkel e il tecnico Schauble. Ma sarà davvero così, siamo certi che la contesa si svolga unicamente nel agone politico ? Alle loro spalle c'è, a mio avviso, una Germania a due velocità: produzioni ad altissimo valore aggiunto, ad altissimo contenuto scientifico e tecnologico contrapposte a produzioni più ordinarie che vincono la concorrenza anche grazie ad un euro sottovalutato rispetto ad un ipotetico marco.

I capitali facenti capo a rami d'industria d'avanguardia hanno interesse ad un euro forte e in concorrenza con il dollaro come moneta di riserva internazionale, grazie al plusvalore relativo inglobato nelle merci prodotte  (a sua volta generato dalla coesa società tedesca in cui tutte le infrastrutture sociali, ovverosia la società stessa, sembrano in questa fase ben armonizzate allo scopo) e che agiscono sul mercato internazionale in regime di monopolio o comunque di scarsa concorrenza, riuscendo così ad estrarre valore anche da capitali a bassa composizione organica. Queste elite un giorno potrebbero, se costrette dalla congiuntura, essere loro ad uscire dall euro, portandosi conseguentemente dietro un bel codazzo di paesi a raggiungere la massa critica necessaria a porsi comunque, anche in assenza delle nazioni cicala indebitate, fra le centralizzazioni capitalistiche più potenti del pianeta.

Queste punte avanzate  come sempre si nutrono e si rinnovano su una base capitalisticamente più "ordinaria" dove al raggiungimento della redditività dell investimento concorrono ancora i rozzi fattori che vanno sotto il nome di estorsione del plusvalore assoluto (deflazione salariale, precariato) accanto a quelli dati dalla favorevole collocazione regionale (euro debole e suo relativo mercato unico) Solo per scrupolo aggiungo che il Capitale cerca sempre di sovrapporre entrambe le forme di sfruttamento. Questi capitali forse non si difenderebbero così bene nella contesa globale con la sola proverbiale produttività tedesca per unità di lavoro ; fazioni queste più vocate al conservatorismo, al variare poco o nulla nella strutturazione della moneta e del mercato unico europei.

Ma, come si è visto, questo equilibrio -che la Merkel, non Schauble, impersona- inizia a mostrare evidenti crepe di fronte ad una crisi mondiale complessiva del modo di accumulazione. Crisi che, al momento arginata con fatica,  mostra di covare sotto la cenere e di essere pronta a riesplodere fragorosamente ed inaspettatamente ovunque.

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di Giovanni Boggero da Aspeniaonline 23/7/15
 
La vittoria del “no” al referendum popolare del 5 luglio scorso in Grecia sembrava poter inaugurare una fase completamente nuova nella storia dell'integrazione economica e monetaria dell'Unione. Un governo nazionale, democraticamente legittimato e forte di un responso elettorale inequivocabile, rispediva al mittente le condizioni per ottenere una linea di credito da parte dei propri pari. Una volta accantonato il duro regime di condizionalità, gli scenari che parevano profilarsi in un orizzonte quanto mai prossimo erano sostanzialmente due: prima ipotesi, una radicale trasformazione dell'Unione economica e monetaria, nel senso di una istituzionalizzazione dei meccanismi permanenti di perequazione fiscale e di comunione dei debiti pubblici (quella che in Germania, con un pizzico di terrore, è chiamata Transferunion); ipotesi alternativa, l'uscita dalla moneta unica di uno Stato membro (l'ipotesi del Grexit). In entrambi i casi, l'architettura economica e finanziaria dell'eurozona come l'avevamo conosciuta da Maastricht fino a oggi sarebbe radicalmente cambiata.

Il compromesso raggiunto nella notte tra il 12 e il 13 luglio scorsi all'Euro Summit ha ribaltato questa prospettiva. Non basta un governo nazionale, ancorché legittimato da un plebiscito, a innescare un mutamento degli assetti istituzionali fissati da un Trattato. Di più: in un'unione economica e monetaria, un governo nazionale non può sottrarsi al giudizio dei propri pari. Al contrario, più ancora del proprio popolo, un governo di uno Stato membro deve godere della fiducia dei propri pari per poter essere parte attiva di un'unione economica e monetaria stabile. Ecco, quindi che l'ipotesi più recessiva e improbabile all'indomani del referendum è tornata attuale la scorsa settimana: l'integrazione economica e fiscale lenta e asimmetrica, imperniata sul metodo intergovernativo e fondata sul regime di condizionalità. La cessione di sovranità da parte degli Stati membri all'Unione continua cioè a essere il risultato di uno “stato di eccezione” più che un disegno preciso dei “signori dei trattati” e, in particolare, della cabina di regia franco-tedesca.

mercoledì 22 luglio 2015

La veritè tra capo e collo

Prudentia di Humachina
Voi avete messo mano alla mia intera vita; ebbene possa questa levarsi contro di voi...

Danton, prima della condanna

lunedì 20 luglio 2015

L' uomo che costò trenta miliardi

E' una Reuters, niente di più, dà però un' idea di come sono andate le cose nei negoziati sul debito greco.
 

 di Dina Kyriakidou

ATENE, 20 luglio (Reuters) - Ancora una volta Alexis Tsipras si è sforzato di prendere una decisione. Per ore, il 13 luglio, il primo ministro greco e i leader europei avevano sviscerato i termini di un nuovo accordo persalvare la Grecia dalla bancarotta e mantenere il Paese nell'eurozona.

E quando una copia dell'ultima versione venne mandata in stampa, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk erano soddisfatti. Lo sembrava anche Tsipras, ma lasciò la stanza per verificare ancora una volta alcuni dettagli con i compagni del suo partito Syriza.

Un'ora dopo non era ancora tornato. I capo di stato e di governo passeggiavano avanti e indietro, gingillandosi con i telefonini. Il presidente lituano e il premier sloveno dissero che non potevano più attendere e uscirono dalla porta di servizio, come racconta un diplomatico coinvolto nell'organizzazione del vertice.

Alla fine Tsipras riapparve e la sua risposta confermò quanto i leader europei già sospettavano: senza il pieno appoggio del suo partito, il leader greco non poteva impegnarsi. La scrittura della bozza doveva ricominciare da capo.

sabato 18 luglio 2015

Rottura o barbarie

on  

di COMMONWARE

0. Fin dall’inizio del dibattito attorno alla Grecia abbiamo scelto un altro campo rispetto a quello prevalente nella sinistra e nei movimenti, giocato dalle tifoserie pro o contro Tsipras. L’una e l’altra torcida hanno posizioni e ruoli diversi al proprio interno, da chi cerca di importare un modello elettorale a chi si propone come think tank dell’altra Europa, da chi ritiene che ciò che succede nelle istituzioni non ci debba riguardare a chi teme un’inevitabile cattura delle lotte, dimostrando in queste non molta più fiducia di quanta ne abbiano i partigiani delle istituzioni.

Abbiamo posto da subito una questione apparentemente banale eppure molto poco discussa e dunque risolta: quella del noi che parla. Coerenti con questa impostazione di discorso, all’indomani della proposta del governo greco che svuota l’oxi della sua popolazione non ci interessa adesso discutere se Tsipras sia un traditore oppure no. Lasciamo tale dibattito a chi si è sentito rappresentato da Syriza e ha riposto speranza nella possibilità che il suo leader riuscisse a creare un’altra Europa, o al contrario a chi era ansioso di dimostrare che sbagliavano. Non ci riguarda se Tsipras volesse o meno fare diversamente, perché – come ci ha insegnato la sana tradizione del realismo materialista – è inutile chiedere a qualcuno di essere diverso da quello che è: il punto per noi è che non poteva farlo. Si può riconoscere a Tsipras – anche qui, indipendentemente dalla sua volontà – di aver portato all’estrema tensione l’opzione rappresentativa, socialdemocratica e della sinistra, mostrandone il completo esaurimento politico. Sul bordo della rottura, ha accettato di tornare ad avere una pistola puntata alla tempia, perché alla fine della fiera rapiti e rapitori campano della stessa bottega, quindi è paradossale interesse degli uni e degli altri riprodurla e non chiuderla.

domenica 12 luglio 2015

Sull' affare Hacking Team


A pochi giorni dall'attacco hacker che ha colpito Hacking Team, società milanese produttrice di spyware (software di spionaggio) governativi, l'azienda stessa afferma in un comunicato ufficiale dell'8 luglio di aver perso il controllo dei propri prodotti informatici, affermando di “non riuscire più a controllare chi li utilizza.” Il 6 luglio l'account Twitter @hackingteam è stato infatti violato prima di divenire strumento di diffusione di oltre 400 Gigabyte di materiale riservato.

Ciò ha di fatto comportato la messa a nudo del funzionamento dei software di spionaggio, dei dati di accesso per il controllo di questi ultimi e di molti dei rapporti commerciali stipulati dall'azienda con governi e agenzie di intelligence, oltre che di svariate password, email e credenziali.
E' quindi la stessa Hacking Team a confermare il fatto che ora buona parte dei sistemi di controllo fino ad ora venduti possano essere violati, con la conseguente possibilità che gli stessi dispositivi spiati e controllati finora dai clienti di HT vengano ora controllati da altri individui; siano essi coloro i quali hanno effettuato l'attacco informatico o chissà quali altri. L'azienda ha acquisito da diversi anni un ruolo centrale nella sorveglianza globale tramite software-spia, spiccando per supporto ai clienti ed infrastrutture complesse nonché per la rassicurazione sull' “invisibilità” (agli occhi di anti-virus) dei propri prodotti.

sabato 4 luglio 2015

Crisi e centralizzazione


Nella letteratura accademica, sia di stampo critico che mainstream il termine “centralizzazione” viene spesso sostituito dall’espressione “concentrazione”. Gli stessi Marx e Hilferding in alcune circostanze adoperano questi termini alla stregua di sinonimi. A ben guardare, tuttavia, i due concetti hanno significati diversi. Nell’ accezione originaria di Marx la “concentrazione” del capitale corrisponde alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti che in rapporto alla forza lavoro disponibile: la “concentrazione”, in altre parole, “è basata direttamente sull’accumulazione, anzi è identica ad essa” (Marx, [1867] 1994, p. 685).

Invece, la “centralizzazione” dei capitali consiste nel fatto che, sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la competizione capitalistica si presenti di norma come “ripulsione reciproca di molti capitali individuali”, è possibile rilevare un’opposta tendenza alla “concentrazione di capitali già formati” e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’“espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi” (ivi, pp. 685-686). Il processo di centralizzazione può in tal senso concretizzarsi in vari modi: semplicemente attraverso l’uscita dal mercato dei capitali più deboli; oppure tramite liquidazione, acquisizione o fusione aziendale, che implicano cambiamenti nel diritto di proprietà; oppure anche in modo surrettizio, quando la proprietà formale del capitale resta frammentata ma il controllo si concentra in poche mani, come nei settori in cui le catene produttive sono basate sull’outsourcing oppure, più in generale, come accade con la massa dei capitali la cui proprietà è dispersa tra una miriade di azionisti e depositanti ma la cui gestione è demandata ai vertici di società per azioni e istituti bancari.

giovedì 2 luglio 2015

La forza gravitazionale del Capitale tedesco


Un testo del gennaio 2012, Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell' euro,scritto da Guglielmo Carchedi, reperibile in rete. Forse per divinare sul futuro greco conviene dare un occhiata a Berlino.



[...] Primo, la Germania (o meglio detto quella frazione della borghesia tedesca che vuole difendere l’euro ma a condizione che rimanga una moneta forte) e gli altri paesi finanziariamente più forti (come l’Olanda e la Finlandia) lasciano che i paesi deboli falliscano (la Grecia e il Portogallo). I paesi deboli lascerebbero la UE perché ancor meno in grado di rispettare i parametri di Maastricht. Probabilmente alcuni di tali paesi rinuncerebbero anche all’Euro. Ma ciò non è necessario, essi potrebbero ‘eurorizzare’ le proprie economie pur non facendo più parte della UE, come hanno fatto alcuni paesi latinoamericani (per esempio, Panama nel 1904, l’Ecuador nel 2000, El Salvador nel 2001) che hanno dollarizzato le proprie economie senza essere parte del sistema economico USA.

Sembrerebbe che questa sia la soluzione più soddisfacente per il blocco dei paesi forti, in primis la Germania, per tre motivi. Primo, l’area economica in cui viene usato l’euro non sarebbe ridotta in modo significativo se uno o due dei paesi più piccoli lascassero l’euro. Secondo, i paesi forti e la UE non sarebbero più responsabili per le economie e quindi per i debiti dei paesi deboli, “eurorizzati”.7 Terzo, l’eurozona si ridimensionerebbe ai soli paesi ‘virtuosi’ e l’euro diventerebbe la moneta di quella zona, un euro ‘nordico’.L’euro nordico diventerebbe l’espressione di economie forti e sarebbe in grado di sfidare il dollaro anche perché anche il dollaro si sta indebolendo, come sottolineato dal recente declassamento dei titoli USA per la prima volta.

mercoledì 1 luglio 2015

La natura umana per Marx (1)


La filosofia ha dibattuto ampiamente il tema dell’essenza dell’Uomo. Sarebbe impossibile – ed anche inutile – ripercorrere le tappe di tale dibattito; semplificando, si possono però individuare due tesi principali: la prima afferma la natura egoistica e individualistica dell’Uomo(1); la seconda afferma che l’Uomo è un essere storico e sociale(2).
Per Marx: «…l’essere umano non è un’astrazione immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l’insieme dei rapporti sociali»(3).
Non esiste, dunque, una “vera” natura dell’uomo rintracciabile a prescindere da qualunque contesto storico-sociale e che possa essere riconosciuta anche nell’ipotetico uomo isolato e senza relazioni sociali, in quel Robinson Crusoe di cui lo stesso Marx parla nell’ambito della critica all’economia politica inglese. L’uomo è un essere sociale e, in quanto tale, la sua essenza è inscindibile dai concreti
rapporti entro cui egli svolge la propria esistenza:
«La mia coscienza universale non è altro che la forma teoretica di ciò di cui la comunità reale, l’essere sociale, è la forma vivente» […] «Anzitutto bisogna evitare di fissare di nuovo la “società” come astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è l’essere sociale» […] «La vita individuale dell’uomo e la sua vita come essere appartenente ad una specie non differiscono tra loro»(4).